Il linguaggio burocratico non è un sistema monolitico. è
piuttosto un coacervo di usi e costumi linguistici appartenenti a lingue
speciali vere e proprie, quali quella giuridico-legislativa, dell’economia
o della finanza, ognuna con il proprio bagaglio di tecnicismi, locuzioni
complesse, stereotipie. In queste origini variegate risiedono molte delle
sue caratteristiche, prima fra tutte la sua refrattarietà a un’espressione
chiara e concisa.
Da questo serbatoio stratificato le amministrazioni
recuperano le equivoche formulazioni linguistiche che impiegano nello
scambio di informazioni e di azioni con i cittadini. Ma mettiamoci dalla
parte del destinatario. La situazione psicologica di chi consulta o riceve
un testo amministrativo è tale da non concedere spazio all’incertezza. Al
cittadino, infatti, si richiedono specifici comportamenti da esibire nei
diversi frangenti della vita quotidiana, la cui indicazione deve essere
quanto più possibile univoca e sicura, perché parzialmente
vincolante.
è l’attenzione alle esigenze del destinatario, dunque, a
costituire la motivazione e la guida alla semplificazione dello stile
burocratico.
Già nel Trecento, un autorevole monito alla trasparenza
l’aveva lanciato il cronista fiorentino Dino Compagni, nella Canzone
del pregio, augurandosi che il notaro "d’imbreviar sue scritte
non si’ avaro", cioè non sia trascurato nello stendere gli atti con
chiarezza. Le vie da seguire per raggiungere questa chiarezza sono
diverse. Una di esse passa attraverso un uso critico del vocabolario.
Vediamo in che modo.
Il lessico italiano è costituito da decine di
migliaia di parole. Al suo interno ne è stato isolato un nucleo di poche
migliaia che rappresenta il vocabolario di base, vale a dire
quell’insieme di parole che, essendo le più diffuse, sono note a quasi
tutti i parlanti e sono quindi di più facile comprensione. Si è visto che,
all’aumentare in un testo del numero di parole estranee al vocabolario di
base, diminuisce il numero di persone in grado di comprenderlo. Ne
consegue, da un lato che le parole di uso comune sono preferibili a quelle
più rare, dall’altro che le parole meno frequenti e i tecnicismi
irrinunciabili, una volta introdotti nel testo, devono essere spiegati con
parole di uso comune.
I redattori di documenti amministrativi, invece,
posti di fronte a diverse opzioni lessicali semanticamente equivalenti,
tendono spesso a scegliere quelle più rare e difficili. Costante è l’uso
di parole e formule dotte, arcaiche o letterarie, di matrice
oscurantistica. Osserviamo una lettera qualsiasi e notiamo, per esempio,
che l’esordio è spesso affidato a locuzioni solenni, come la Signoria
vostra (o S.V.), quando è più semplice - e attuale - l’uso del
pronome allocutivo Lei per rivolgersi al proprio destinatario. La
stessa lettera preferisce rammentare anziché ricordare,
informa che un determinato istituto provvederà a erogare una data
somma anziché versarla, concede un nulla osta invece di un
parere favorevole, sollecita un riscontro invece di una
risposta. Domina un’inspiegabile ansia di appesantire il testo con
parole inutili, per cui locuzioni complesse come al fine di o
nel caso in cui occupano il posto delle corrispondenti - e
inequivocabili - congiunzioni semplici per e se; o ancora,
perifrasi verbali astratte si sostituiscono a verbi semplici
(provvedere alla copertura assicurativa o dare comunicazione
anziché assicurare e comunicare). Gli esempi sono
davvero tanti. Concludo con gli immancabili altresì e testé,
avverbi di antica memoria, che pretendono di dare lustro alla pagina, ma
il cui preciso significato è ignoto a molti.
Optare per l’alternativa
lessicale più semplice non significa ridurre il linguaggio burocratico a
lingua pidgin (il termine indica quei sistemi linguistici dalla
struttura molto semplice usati per gli scambi commerciali in situazioni
coloniali), ma mettere una relazione semantica fondamentale, quale la
sinonimia, al servizio dell’efficacia comunicativa.
[La comunicazione leggera, «Guida agli Enti Locali», 2 giugno 2001]