Mettersi nei panni del destinatario è la prima regola della comunicazione. Prima ancora
delle formule di leggibilità, è il cestino dei rifiuti dello scrittore a rivelare empiricamente l'efficacia comunicativa dei suoi messaggi: se è pieno di carta straccia, di tentativi abortiti, allora ci sono buone probabilità che la comunicazione vada a buon fine.
Sì, perché quanto più chi scrive si fa carico delle difficoltà di chi legge, fronteggiando la distanza sociale, culturale e professionale che li separa, tanto più potrà sperare di aver comunicato con chiarezza il proprio pensiero.
Da parte sua, chi si accosta a un testo, di qualsiasi natura esso sia, si lascia guidare da una serie di attese, di aspettative di senso, che progressivamente si sciolgono a favore di una determinata chiave di lettura. In pratica, chi legge si aspetta sempre che le parole altrui vengano usate nel senso che gli è più familiare. Quindi la più naturale aspettativa che un testo pubblico e istituzionale dovrebbe soddisfare è di muoversi nello stesso orizzonte culturale dei cittadini cui è rivolto, rispettandone la lingua nazionale. Considerazione, quest'ultima, fin troppo ovvia, dettata dal buon senso. Qualche volta, però, realtà e buon senso si scontrano impietosamente.
Alcuni anni fa l'autorevole The Independent ha scritto pressappoco che gli italiani se ne starebbero zitti tutto il giorno se non potessero usare, opportunamente storpiate, un buon numero di parole inglesi. Qualcuno ha acutamente replicato che gli inglesi non sono da meno: fanno incetta di parole italiane e le modificano, a seconda dei casi, nella forma o nel significato.
A prescindere da queste schermaglie, tuttavia, bisogna riconoscere che la pubblica amministrazione parla sempre più spesso il linguaggio della globalizzazione, sfornando testi infarciti di vocaboli stranieri, soprattutto inglesi, usati non per coprire vuoti lessicali dell'italiano, ma perché avvertiti più esotici e alla moda. Qualche esempio dall'inglese: meeting (riunione, convegno), project manager (capo del progetto), budget (bilancio di previsione), break even (pareggio di bilancio); o dal francese: surplus (sovrappiù), stage (seminario), tranche (parte, porzione), coupon (tagliando, cedola di dividendo).
Ora, che le lingue si influenzino reciprocamente, scambiandosi materiale verbale, è un dato di fatto e, in quanto tale, non contestabile. Ma è poi lecito pretendere che i cittadini siano tutti poliglotti? Certamente no. Come comportarsi allora?
Occorre anzitutto fare una distinzione, perché i forestierismi (termine tecnico che indica parole ed espressioni prese in prestito da lingue straniere) non sono tutti uguali. Poiché la quasi totalità delle parole straniere ha equivalenti in italiano, è consigliabile sacrificare moda ed esotismo a vantaggio della chiarezza e puntare dritto alle parole italiane. Analogo trattamento dovrebbero ricevere i vocaboli latini che il linguaggio amministrativo ha assorbito da quello giuridico: de facto (di fatto), de iure (di diritto),
de cuius (la persona che lascia beni in eredità), sub conditione (con riserva) sono comprensibili a chiunque se tradotti in italiano.
Alcuni forestierismi, però, sono il riflesso di influenze non solo linguistiche, ma anche culturali e possono non avere equivalenti in italiano. In questi casi i vocaboli stranieri vanno spiegati con parole di uso comune, contestualmente o in nota. Ad esempio, l'inglese drafting, che nel linguaggio giuridico è «l'insieme dei procedimenti con cui si abbozzano e si attuano le proposte per le nuove leggi presentate in Parlamento», non ha equivalenti nella nostra lingua e può solo essere spiegato con una circonlocuzione.
In definitiva, un testo risulta chiaro se chi legge capisce tutte le parole che lo compongono. Diversamente, il lettore che non conosce il significato di alcune parole, non sarà in grado di ricostruire il senso completo deltesto e rischierà di capire male o di non capire perniente.
[Nei panni di chi legge, «Guida agli Enti Locali», 15 dicembre 2001]