Uno dei momenti più critici di ogni operazione di scrittura
è l'inizio. Trovare la frase iniziale può essere un
dramma; ma una volta che la si è trovata, spesso il resto
scorre veloce, se si ha chiara in mente, o su un foglio di carta,
l'impalcatura logica del messaggio che si vuole trasmettere. Ma,
soprattutto quando si scrive una lettera, c'è un altro blocco
iniziale: come rivolgersi al destinatario?
Tradizionalmente gli uffici pubblici si rivolgono ai loro
interlocutori (cittadini, utenti, ma anche altri uffici) con forme
indirette (ad es. con la perifrasi Signoria Vostra, al plurale
Signorie Loro, abbreviati S.V. e SS.LL.); oppure aggirano il
problema usando il passivo o evitando di rivolgersi
all'interlocutore. Ugualmente l'ufficio parla di sé in terza
persona (lo scrivente ufficio; e fa parlare anche il cittadino in
terza persona: il sottoscritto) oppure usa l'impersonale.
Dietro queste scelte ci possono essere anche buone ragioni: il
fatto che il pubblico dipendente non scrive i suoi testi come
singolo, ma come rappresentante di un ente collettivo, oppure il
fatto che vuole dimostrare cortesia nei confronti
dell'interlocutore. Ma questi buoni propositi si tramutano
facilmente in eccessiva distanza e in accentuata spersonalizzazione
del contatto tra ente emittente e cittadino ricevente. E qualche
volta (o tante volte?) questa distanza è volutamente cercata,
non per rispetto del cittadino, ma per marcare la situazione di
asimmetria che si crea tra l'ente pubblico, detentore di un potere,
e i cittadini, considerati ancora come sudditi.
Chi vuole temperare il carattere asimmetrico del rapporto tra la
pubblica amministrazione e cittadini (che comunque esiste) si
rivolgerà a un cittadino con il Lei, evitando tanto
l'indiretto Signoria Vostra quanto l'arcaico Ella. Una formula
diretta, per indicare l'amministrazione che emette il messaggio,
è la prima persona plurale, adeguata al carattere collettivo
di un ufficio pubblico: il noi è un ottimo sostituto di
formule impersonali come «(con la presente) si informa
che...». Nel caso di comunicazione tra due uffici si può
utilizzare il noi per l'emittente, il voi per il
destinatario.
Un altro problema è come appellare l'interlocutore (con il
nome, con un titolo ecc.). Tra le diverse soluzioni possibili, la
più indicata è quella di rivolgersi ai cittadini con il
titolo generico di Signore o Signora, accompagnato, per ragioni di
cortesia, dall'aggettivo gentile. Tradizionalmente si è
affermata una distinzione tra interlocutori maschi, ai quali si
preferiva attribuire l'aggettivo egregio, e interlocutrici femmine,
alle quali sole si attribuiva l'aggettivo gentile. In realtà,
non c'è alcuna ragione di istituire questa differenza, tra
l'altro inutilmente contraria a ogni principio di parificazione tra
i sessi. Lo stesso aggettivo può essere usato in lettere
collettive (Gentili signore, gentili signori) o in lettere inviate
a destinatari per i quali sia pertinente la menzione del titolo di
studio (per esempio Gentile dottore o Gentile professoressa nelle
comunicazioni di un'amministrazione universitaria o di un ente
sanitario). È comunque inopportuno inviare a destinatari
singoli lettere con un'intestazione generica (del tipo Gentile
signore/a, ma anche Gentile signora/e o Gentile signore/Gentile
signora ecc.).
Infine, spesso il firmatario di una lettera o di un manifesto
esibisce il suo titolo di studio, anche quando è irrilevante o
non pertinente. In questi casi una dimostrazione di modestia è
quanto mai opportuna (a cominciare dai sindaci o dagli assessori,
che possono essere professori, ingegneri, avvocati, ma quando
svolgono il loro ufficio non lo fanno come professori, ingegneri,
avvocati, ma come cittadini eletti o nominati per svolgere un
servizio a favore della collettività). E comunque, titolo o
non titolo, nella firma il nome precede il cognome (quindi Lorenzo
Pisani, e non Pisani Lorenzo né, tanto meno, Pisani avv.
Lorenzo).
[Più vicini all'interlocutore, «Guida agli Enti Locali», 25 gennaio 2003]