John Milton
(Londra, 1608-74)
Proveniente da una famiglia legata ad ambienti puritani colti e umanisti, Milton compie i suoi primi studi alla St. Paul’s School e al Christ’s College di Cambridge, con l’intenzione di abbracciare gli ordini sacri. Di questi anni sono le sue prime prove letterarie, in inglese e in latino, tra cui l’ode On the Morning of Christ’s Nativity (1629). Di poco più tardi i poemetti L’allegro e Il penseroso, che eserciteranno grande influenza sui poeti romantici. Abbandonata ogni idea di carriera ecclesiastica, Milton si rivolge appassionatamente agli studi letterari, appartandosi nella dimora paterna di Horton, dove approfondisce la sua conoscenza dei classici e degli autori europei continentali (intense le letture di Dante, Petrarca, Bembo, Tasso). Compone il ‘masque’ Comus e il fortunato poema elegiaco Lycidas. Forse di questi anni anche i suoi primi 10 sonetti, in inglese e in italiano (stampati solo nel 1645). Durante il biennio 1638-39 Milton viaggia in Italia (dove fa la conoscenza di importanti personalità della cultura), Francia e Svizzera, ma è costretto al ritorno in patria dallo scoppio della guerra civile. Partecipa attivamente alla vita politica, inizialmente su posizioni favorevoli ai Presbiteriani, quindi agli Indipendenti di Cromwell, nel cui governo entrerà con la carica di segretario del consiglio di stato per gli affari esteri. L’impegno civile va di pari passo con una ricca produzione libellistica (Of Reformation in England, 1641; The Reason of Church Government Urged against Prelaty, 1642; The Tenure of Kings and Magistrates e Eikonoklastes, 1649; Pro Populo Anglicano Defensio, 1651; Pro Populo Anglicano Defensio Secunda, 1654). Accanto alla produzione politica, Milton attende alla stesura di un trattato teologico (De doctrina christiana, 1655), le cui posizioni spesso eterodosse troveranno riscontro nel Paradise Lost. Nonostante l’aggravamento dei problemi di vista di cui soffre da tempo, e che lo portano nel 1652 alla totale cecità, Milton continua la sua azione politica e di polemista in favore di Cromwell, sino al dissolvimento dell’esperienza del Commonwealth (1559). Dopo la Restaurazione (1660) è costretto a un periodo di vita forzatamente ritirata, mentre alcune sue opere sono condannate e bruciate. Negli anni immediatamente precedenti alla Restaurazione, Milton aveva già messo mano al progetto di un grande poema epico in blank verses, che verrà portato a termine nel 1665 e pubblicato col titolo di Paradise Lost una prima volta in dieci libri nel 1667, una seconda volta (riorganizzato e aumentato di 2 libri) nel 1674. Ad esso seguiranno la continuazione del poema, il Paradise Regained in 4 libri, e la tragedia Samson agonistes (1671). Principali opere letterarie: On the Morning of Christ’s Nativity (1629); L’allegro e Il penseroso (prima ed. 1645); A “mask” presented at Ludlow Castle (più nota come Comus, 1632 ca; prima ed. 1645); Lycidas (1637); Paradise Lost (1667); Paradise regained e Samson agonistes (1671).
Cinque sonetti e una “canzone” (in realtà una stanza isolata di canzone): Donna leggiadra il cui bel nome honora (son. a schema ABBA.ABBA.CDEDCE), Qual in colle aspro, al imbrunir di sera (son. a schema ABBA.ABBA.CDCDEE), Ridonsi donne e giovani amorosi (“canzone” di 15 versi, a schema ABC.ACB.BDdEFE + congedo FGG), Diodati, e te’l dirò con maraviglia (son. a schema ABBA.ABBA.CDCDEE), Giovane piano, e semplicetto amante (son. a schema ABBA.ABBA.CDEDCE).
Poems of | Mr. John Milton, | Both | English and Latin, | Compos’d at several times. || Printed by his true Copies || The Songs were set in Musick by | Mr. Henry Lawes Gentleman of | the Kings Chappel, and one | of His Maiesties | Private Musick. || — Baccare frontem | Cingite, ne vati noceat mala lingua futuro, | Virgil, Eclog. 7. || Printed and publish’d according to | Order || London, | Printed by Ruth Raworth for Humprey Moseley, | and are to be sold at the signe of the Princes | Arms in S. Paul Church-yard, 1645. Poems, &c. | upon | Several Occasions. || by | Mr. John Milton: || Both English and Latin, &c. | Composed at several times. || With a small Tractate of | education | To Mr. Hartlib. || London, | Printed for Tho. Dring at the White-Lion | next Chancery Lane End, in | Fleet-street. 1673. Nella seconda ed. dei Poems (1673), i sonetti italiani presentano varianti di scarso rilievo, dovuti probabilmente allo stampatore.
I sei componimenti sono inseriti tra i dieci sonetti della princeps, dove sono stampati di seguito e numerati progressivamente dal numero II al numero VI incastonati tra componimenti in inglese. La ‘canzone’, posta tra i sonetti III e IV, è priva di numerazione. Sonetti e ‘canzone’ mantengono la medesima posizione anche nella sezione Sonnets dell’edizione aumentata del 1673.
Probabilmente composti già prima del viaggio in Italia del 1638-39, e prima della morte di Carlo Diodati (avvenuta nell’agosto del 1638), cui è rivolto uno dei sonetti (Diodati, e te’l dirò con maraviglia). Si è soliti datare la redazione dei sonetti a un’epoca compresa fra il 1627 e il 1630, più probabilmente intorno al 1629, anno in cui Milton entra in possesso del volume di Rime e Prose del Della Casa nell’edizione veneziana del 1563. È stato ipotizzato (Baldi) che, durante il viaggio in Italia, il poeta operasse un aggiornamento linguistico dei testi. Le sei poesie sono dedicate a una donna italiana di nome, probabilmente, Emilia, la cui identità è lasciata volontariamente nel vago, tanto da resistere a ogni tentativo di precisazione da parte della critica (diverse proposte identificative da parte di Rolli, Masson, Carducci, Smart).
I sonetti italiani sono le sole liriche amorose di Milton. Nel loro complesso, i componimenti identificano una ‘storia d’amore’ compiuta, incastonata tra un prima e un dopo, dati dalla cornice dei pezzi in inglese, di tema differente: il tema erotico si salda quindi nettamente con l’opzione linguistica. Quest’ultima si intreccia anche con la riflessione metapoetica sul poetare e sul poetare in italiano. L’incontro con la donna è l’incontro con la poesia italiana: le poesie che lo narrano sono quindi poesie che narrano sé stesse.
La lingua poetica è fortemente influenzata dall’italiano aulico del manierismo cinquecentesco, quale Milton poteva recepire dallo studio del suo prediletto Della Casa, oltre che dal Bembo, dal Tasso e dal Varchi. In questo senso i sonetti, più ancora che ‘petrarcheschi’, si possono dire ‘eroici’, secondo la definzione tassiana, a causa della struttura sintattica ampia e sostenuta, che ammette frequenti inarcature e il programmatico superamento sintattico dei confini strofici del sonetto. L’inerzia petrarchista è evitata anche attraverso la ricerca di iuncturae (combinazioni lessicali e stilematiche) non tradizionali e inconsuete (lingua snella I, v. 6; faticosa luna IV, v. 11, insanabil ago [il dardo d’Amore] VI, 14 ecc.), oltre che grazie al gusto di formazioni parasintetiche (s’infiora, s’ingiela) – probabili echi danteschi – e la sostantivazione di aggettivi (il duro, VI, 13) e di avverbi (il forse, VI, 9). Alcune altre espressioni sfuggono alla lingua standard della lirica italiana. Ad es., la locuzione «incerar gli orecchi» (son. IV, v. 16), nel senso di ‘chiudere le orecchie con la cera’ (con rimando mentale a Ulisse), è forse usata in una poesia italiana per la prima volta qui (il GDLI ne dà solo esempi successivi: di Salvator Rosa in poesia; in prosa, di Frugoni – con rimando esplicito a Ulisse – e di Algarotti). Nel complesso, si può parlare di un italiano molto sorvegliato, privo senz’altro di barbarismi. Echi di un apprendimento letterario e non vivo, aggiornato oltretutto alla lingua poetica di un secolo prima, possono tuttavia argomentarsi a partire da singoli indizi. Così, la già richiamata giunzione lingua snella (III, v. 6, vero e proprio hapax) può essere dovuta alla libera combinazione di un aggettivo che Milton trovava glossato a questo modo nel dizionario italiano-inglese di cui più si serviva (John Florio, Queen Anna’s New World of Wordes, or Dictionarie of the Italian and English Tongues, E. Blount and W. Barret, London, 1611): «snello, swift, nimble, fleete, lightfooted»; combinato, appunto, con il sintagma dell’inglese vivo (ma già anche di Chaucer) swift tongue: ‘lingua veloce’ (cioè: snella; avremmo qui dunque un caso di traduzione ‘di secondo livello’). Di alcune altre scelte lessicali si può dar ragione anche (non necessariamente solo) ancora a partire dal controllo che Milton poteva effettuare sul lessico del Florio. Così per quanto riguarda l’uso di là onde (II, v. 8) ‘laddove’ (e non ‘là, di dove’, secondo l’uso più proprio, e già dantesco e petrarchesco, cui rimanda nel suo commento lo Smart, p. 144), Milton trovava autorizzazione nei primi significati dati dal Florio alla voce laonde: «whereupon, whereon [‘su cui’, appunto]. Also there-whence [‘di dove’]». Ancora, l’aggettivo strania (III, v.7) per strana, è garantito, oltre che dagli autori, anche dall’autorizzazione del medesimo glossatore («stranio as strano»); così, la locuzione avverbiale reduplicata ad hor ad hor (‘canzone’, v. 10: ‘or ora’): «adhora adhora, even now, at this hour». Si aggiunga infine l’uso assoluto di avezza (III, v. 2) ‘adusa, abituata’ (non preposizionale: avezza a, come si trova negli autori italiani), suggerito forse ancora dal Florio («avezzo, accustomed, wont, enured»). Infine, sono buoni indicatori di una distanza non solo dalla lingua viva, ma anche dalla lingua poetica contemporanea, singole forme, proprie della poesia italiana fino al Cinquecento, ma oramai in via d’abbandono (se non già in disuso) all’epoca di Milton. Così: volse per ‘volle’, presente in Dante e Petrarca, e ancora nella poesia cortigiana quattrocentesca (ad es. in Ariosto), si fa raro dopo il Cinquecento. Ancora, la forma dittongata truova per ‘trova’, così come la forma vaglia per ‘valga’, vanno presi come forme letterarie e arcaizzanti, tali avvertite dagli autori che ancora nel Cinquecento ne facevano uso.
Le quartine dei sonetti sono tutte sullo stesso schema: ABBA.ABBA, che da un lato rimanda a un frequente uso petrarchesco, dall’altro è tradizionale nell’adattamento inglese di tale forma metrica. Le terzine conoscono maggiore varietà, disponendosi secondo tre schemi (con due sonetti per ciascuno di essi), tutti comunque già attestati in Petrarca. Uno solo di essi (CDC.DEE dei sonn. IV e V) richiama l’uso tipicamente inglese del distico finale – nel son. IV, dove è ben isolato anche sintatticamente (vv. 15-16: «E degli occhi suoi avventa sì gran fuoco / che l’incerar gli orecchi mi fia poco») –, mediato e autorizzato comunque dall’autorità di Petrarca (cfr. ad es. Rvf 13). Lo schema della ‘canzone’ non sembra avere riscontri probabili. Se la fronte ABC.ACB, introdotta da Dante ma non presente in Petrarca e negli autori trecenteschi, è tuttavia presente in Della Casa, per la sirma non si sono trovati modelli convincenti (a poco vale il raffronto con lo schema di canzone di L. Sacchetti: aBC.aBC.C.DdEfEf.GG, registrato al numero CXL del repertorio di Pelosi, in «Metrica», V, p. 45). La prosodia è generalmente attenta al rispetto della prassi versificatoria italiana così come fissatasi da Petrarca al Cinquecento. Pochi quindi gli elementi che meritano una qualche attenzione. Ammissibile lo iato burlando altro al v. 7 della ‘canzone’, con adiacenza di vocale atona e susseguente tonica (-do | àl-). Non fa problema nemmeno la dialefe tra là e onde (II, v. 8), e d’altronde l’uso dantesco dello stesso sintagma, sempre a inizio verso, era lodato da Tasso per la sua solennità. Più interessante la scansione di alcuni versi. In particolare, IV, v. 14: « e degli occhi suoi avventa sì gran fuoco», dove l’accento di 6a dipende dalla sinalefe «suoi ^ avventa» (laddove suoi ^ av- vale per una sola sillaba). Casi consimili sono d’altronde presenti già in Petrarca e licitizzati quindi dalla trattatistica cinquecentesca (ad es.: «pieno era il mondo de’ suoi ^ honor’ perfecti», Rvf 337, 12). Quanto al ritmo, può essere interessante citare III, v. 5: « fuor di sua natìa alma primavera», in cui si dovrà recepire un accento ribattuto di 5a-6a (natìa^àlma), di effetto piuttosto infelice. Altrettanto infelice anche V, v. 14: « finché mia Alba rivien colma di rose», per la durezza della sinalefe mia ^ Alba, con incontro di due vocali identiche, l’una atona, l’altra tonica, e accento ribattuto in sesta e settima sede. Quanto agli endecasillabi con accento di settima, la loro frequenza (III, vv. 7 e 13; ‘canzone’, v. 14; IV, vv. 5 e 10; V, v. 11; VI, v. 3; VI vv. 8, 9 e 13) non andrà forse connessa ad una precisa volontà stilistico-espressiva dell’autore, ma registrata solo come una variabile tecnico-prosodica a disposizione dell’autore.
Nella ‘stanza di canzone’, rispondendo alle voci di donne e fanciulli che ironizzano sulla sua scelta di scrivere «in lingua ignota e strana», il poeta rende note le motivazioni dell’eteroglossia. Se, infatti, gli è mosso il dubbio che lo scrivere in una lingua altra possa recare nocumento alla migliore espressione del proprio pensiero (vv. 5-6: «dinne, se la tua speme sia mai vana, / e de’ pensieri lo miglior t’arrivi»), e che ciò non lo renderà capace di cogliere tutta la gloria (v. 11: «l’immortal guiderdon d’eterne frondi») che gli sarebbe destinata, egli risponde limitando la propria esperienza linguistica a un preciso ambito tematico, quello amoroso (v. 15: «questa è lingua di cui si vanta Amore»). Ciò pone in campo una consapevole esclusività dell’opzione eteroglotta, il suo confino tematico e il suo carattere sperimentale. L’estraneità della lingua impiegata è messa a tema nel sonetto III, laddove essa è indicata come «fior novo di strania favella» (v. 7) con cui il poeta canta, dal suo «buon popolo non inteso» (v. 9). Il cambio linguistico è indicato attraverso una metafora fluviale, per cui l’inglese è identificato con il Tamigi e l’italiano con l’Arno (v. 10); la causa è qui stesso coincidente con la materia trattata: «Amor lo volse» (v. 11).
Edizione di riferimento: S. Baldi, Poesie italiane di Milton, in “Studi secenteschi”, VII (1966), pp. 103-29 (testi, con commento, a pp. 116-28). Altre edizioni: J. Milton, Poemata. Poesie latine, greche, italiane, a cura di G. Maselli, Bari, Palomar, 1998 (testi, senza commento, a pp. 195-98); M. Melchionda, “Il fior novo di strania favella”. Le poesie italiane di John Milton, in Eteroglossia e plurilinguismo letterario. I, L’italiano in Europa, Atti del XXI Convegno interuniversitario di Bressanone (2-4 luglio 1993), a cura di F. Brugnolo e V. Orioles, Roma 2002, pp. 83-117 (testi a pp. 114-17).
D. Masson, The Life of Milton: narrated in connexion with the political, ecclesistical, and literary history of his time, Macmillan and co., Cambridge, London 1859-94, 7 voll.
J.S. Smart, The Italian Singer in Milton’s Sonnets, in «The Musical Antiquary», IV (1912-13), pp. 91-97.
S. Baldi, Poesie italiane di Milton, in “Studi secenteschi”, VII (1966), pp. 103-29 (qui altra bibliografia)
M. Melchionda, “Il fior novo di strania favella”. Le poesie italiane di John Milton, in Eteroglossia e plurilinguismo letterario. I, L’italiano in Europa, Atti del XXI Convegno interuniversitario di Bressanone (2-4 luglio 1993), a cura di F. Brugnolo e V. Orioles, Roma 2002, pp. 83-117
L. E. Enterline, “Myself / Before me”: Gender and Prohibition in Milton’s Italian Sonnets, in J. M. Walker (ed.), Milton and the Idea of Woman, Urbana, University of Illinois Press, 1988, pp. 32-51
(Zeno Lorenzo Verlato)